Una storia di confine: La Casa di Margherita

Una storia di confine: La Casa di Margherita

 

Nell’universo del Terzo Settore esistono intere costellazioni di realtà dal respiro iperlocale che vivono e operano lontane dalle luci della ribalta fornite dall’informazione di primissimo piano. Sono realtà che passano inosservate per via di un basso coefficiente di spettacolarità, un ingrediente che, nel rumore di fondo generale, risulta sempre più necessario se si vuole ottenere un passaggio sulle testate che contano.

Ma se viste da lontano queste realtà possono apparire marginali rispetto ai grandi nomi del non profit, da vicino si scopre quanto siano fondamentali, invece, per le loro comunità di riferimento. Una di queste realtà è La Casa di Margherita.

La Casa di Margherita nasce ad Arcore, un paesino vicino Monza e fuori dai grossi centri metropolitani. Come accade spesso nel non profit di minori dimensioni, prima ancora di varcare la soglia che separa la “cittadinanza attiva” dagli Enti del Terzo Settore veri e propri, La Casa di Margherita è un gruppo di persone che si danno una mano.
 

 

Un aiuto per le neo mamme

 

La storia della Casa di Margherita è una storia di confine che si muove nella “terra di nessuno” di un bisogno che non è facile riconoscere dall’esterno: il bisogno di contatto e relazione delle neo mamme.

Quando si pensa a una neomamma si pensa essenzialmente alla “poesia della maternità”: un mondo fatto di tenerezza, accudimento amorevole, tutele lavorative, gioia della scoperta e tante altre cose che non serve ricordare. Elementi che senz’altro ci sono e sono importanti, ma che sono solo una faccia di una medaglia fatta anche di giornate interminabili passate in una casa vuota, nonché di una dedizione totale che può anche diventare alienazione.

Paola Bosetti, socia ed ex presidente dell’associazione, ci confessa di ricordare ancora i pomeriggi passati a contare i minuti che la separavano dal rumore della chiave nella toppa, suono che sanciva il ritorno del marito dal lavoro e, di conseguenza, il momento in cui poteva tornare a relazionarsi con qualcuno, oltre che a svolgere una funzione.

Non si tratta, quindi, solo di circoscrivere il problema agli ormoni o alle “crisi depressive post parto”: analizzare le implicazioni profonde di questa situazione permetterà di notare come questo genere di solitudine possa diventare anche un problema sociale vero e proprio.
Innanzitutto per ragioni identitarie, perché per molte donne partorire significa scegliere tra l’identità lavorativa e l’identità familiare. E non solo nei casi di ingiustizia estrema, ovvero in quelle situazioni lavorative in cui è più o meno esplicitamente vietato avere figli; parliamo anche di famiglie per cui il ritiro dal lavoro di uno dei membri della coppia diventa il modo più sostenibile di affrontare spese che, in mancanza di aiuti familiari, con l’arrivo di un nuovo nato è impossibile tenere sotto controllo. 

Inutile dire che, nella maggior parte dei casi, a ritirarsi è la donna. Ma c'è di più: questa crisi di identità annunciata, sempre più spesso diventa un buon motivo per scegliere di non avere figli: non è un mistero se la crisi delle nascite, nel nostro Paese, affonda le sue radici anche in questa causa.

Nicolò Triacca, sul blog csvnet.it, chiama “tasso di solitudine” la condizione in cui una persona non sa a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Per rispondere a questa solitudine, un gruppo di neogenitori (soprattutto mamme) si incontra a casa di ognuno creando un polo di aggregazione che sarà poi l’idea fondante della Casa di Margherita.

 

Da cittadinanza attiva a Ente del Terzo Settore

 

L’idea fa centro. Per quanto sia semplice, non è una soluzione scontata: per stare insieme, specialmente se si parla di bambini molto piccoli, ci vuole uno spazio adeguato che in quel momento non c’è. Con la ricerca di una sede nasce l’associazione La Casa di Margherita, il primo spazio gioco per la prima infanzia di Arcore, nonché fondamentale boa di salvataggio per genitori.

La Casa di Margherita è quindi anche la storia del passaggio del confine tra “incontri informali” ed “Ente del Terzo Settore”, un passo non indolore per persone che in realtà, nella vita quotidiana, si occupano di tutt'altro.
La missione sociale del Terzo Settore, come conferma Paola Bosetti, rappresenta, però, solo la parte emersa del gigantesco iceberg che è un’associazione, per quanto piccola essa sia.

Paola – che nell’associazione ha il privilegio di parlare con noi assicuratori (privilegio di cui farebbe volentieri a meno) – si è sempre occupata, invece, della parte più nascosta dell’iceberg, ovvero la burocrazia nella quale si annidano quelle ambiguità strutturali che spesso sono una ragione sufficiente per abbandonare qualsiasi progetto di partecipazione sociale.

Come è accaduto per La Casa di Margherita, chi inizia a fare non profit lo fa per rispondere a mancanze e bisogni che né il pubblico né il privato possono o vogliono soddisfare. Ma riuscire a proseguire e mandare avanti i progetti vuol dire sopravvivere a una selva di norme e procedure tutt’altro che semplici e molto impegnative.

D’altra parte, le stesse normative hanno lo scopo dichiarato di esercitare un’attività di “controllo”, e non di agevolazione: non si vuole, qui, discutere sulla necessità o meno di questo controllo, ma solo rilevare che gli enti preposti a tale scopo spesso non comprendono in pieno l'entità di ciò che controllano.

L’obbligo assicurativo è un esempio perfetto di questa ambiguità: se assicurare i volontari è obbligatorio, anche i soci di un'associazione sono da assicurare oppure no? Come si fa quando beneficiari e “addetti” coincidono? Una mamma che porta il bimbo a giocare e che poi si ferma a pulire è considerata un volontario? Un genitore che presta occasionalmente le sue competenze per piccoli lavori di manutenzione, ma che per il resto paga una quota associativa, è un volontario?
Il problema è che, fatta la norma, chi ha il compito di interpretarla è l’associazione stessa.

Esiste il bisogno di un riordino della materia, ma i tentativi in questo senso, spesso, aggiungono complicazioni che hanno l’effetto di richiedere specializzazioni sempre più approfondite a chi non è un burocrate professionista.

D’altra parte, se realtà come La Casa di Margherita esistono significa che il gioco continua a valere la candela.

 

La difficoltà dello stare insieme

 

A scanso di equivoci, La Casa di Margherita è ancora oggi un successo senza mezzi termini: la lista d’attesa è molto lunga e, anche se esistono ben due sedi operative, Paola non nasconde il desiderio di allargare l’utenza.
Per un’attività quasi esclusivamente autofinanziata è un risultato che, da solo, basta a chiarire l’importanza di un’attività simile per il territorio in cui opera. Se si considera, poi, che nel frattempo sono nate attività commerciali che ripropongono la stessa esperienza ma con soglie d’accesso economiche ben diverse da una semplice quota associativa, a tutto si aggiunge anche il valore di aver dato per primi la risposta a un bisogno che evidentemente continua ad essere attuale.

Naturalmente le sfide non mancano, e il bisogno di trovare ogni giorno un punto di incontro tra persone che portano avanti un progetto comune senza avere alcun ritorno personale è una di queste.

La grande bellezza del non profit è che dall’esterno sembra tutto naturale e pacifico: le buone intenzioni sono una dimensione in cui la discussione e il disaccordo, in teoria, non troverebbero posto. Ma come sa chiunque si sia trovato a fare qualcosa insieme ad altri, la pratica è ben diversa.

La forza della Casa di Margherita è stata anche quella di non arrendersi ai conflitti e cercare sempre una soluzione, anche grazie all’aiuto di consulenti professionali. D’altra parte, anche aiutare e aiutarsi implica il dover prendere delle decisioni e, il più delle volte, dove c’è una decisione da prendere lo scontro di individualità è inevitabile. La Casa di Margherita, però, è una storia di confine proprio perché nasce da confini rispettati.

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